Storie di tutte le cose visibili e invisibili



mercoledì 19 dicembre 2012

Specchi in frantumi

immagine estratta dal web
E’ tantissimo tempo che non parlo più delle condizioni di salute di mio papà e – conseguentemente - di quelle mentali di mia madre.
Non lo faccio perché non ci riesco più.
Il livello di stress emotivo che ho provato quest’estate è stato talmente alto da avere provocato delle crepe inguaribili dentro di me.
Purtroppo sono ancora dentro al tunnel, e siccome non vedo la luce, lo arredo (cit.).

Sono tra quelli che vivono con angoscia le festività Natalizie.
Il Natale non mi piace.
Non è mai piaciuto ai miei genitori, e quindi attacchi depressivi, pranzi mesti e solitari, e tanto altro di brutto e triste. Questo si chiama imprinting.

Ciò detto, la mia vita è in modalità pausa da troppo tempo.
Torno a vivere quando sono molto impegnata.
Al lavoro.
Oppure quando riesco a fuggire per qualche giorno, e riesco a vedere cieli nuovi e dimentico.
Egoisticamente.

Poi capita una sera in cui arriva una bella notizia.
Cioè, straordinariamente non ci sono cattive notizie.
Sembra contorto ma non lo è.
E allora dico a me stessa “stanotte mi faccio un bel sonno tranquillo”.
E invece mi ritrovo alle 2 del mattino seduta sul letto a combattere con una tosse fetente, di quelle che passeranno a Giugno.

Detto questo, mi guardo indietro e vedo un lungo percorso sul quale sono rimasti solo cocci rotti.
E non sempre me ne sono accorta.

Rischio di scivolare nella dietrologia ma credo veramente che l’amicizia sia un dono prezioso, ma faticoso, forse più dell’amore.
In tutte le relazioni umane profonde, ogni ferita inferta o subìta si cicatrizza, ma rimane lì.
E a un certo punto ci si accorge che è troppo tardi, e non ci si può fare più niente.

Mi è capitato tante volte, e so che si sopravvive.
Ma questa volta rimprovero solo me stessa e quindi è doveroso mettersi in discussione.
Sperando che esistano rapporti che veramente possono durare per sempre.
Basta saper aspettare, e ricostruire, forse.
Forse, in alcuni casi, ne vale davvero la pena.
Perché se una persona ti manca da morire, vuol dire che ti è entrata dentro e non ne uscirà più.
Anche se è scomparsa dalla tua vita.

giovedì 6 dicembre 2012

La solitudine di un numero primo



Sono sempre stata diversa.
Una bambina diversa, alta e con i capelli corti e scuri, con il vocione nasale, in mezzo a tante nanette bionde con i codini e la vocina dolce.
Una famiglia diversa, attivista politica di sinistra negli anni ’70, nella città più bigotta del Triveneto.
Che tutti facevano la Prima Comunione a 7 anni, io l'ho fatta a 10.
Con la tunica troppo corta e le scarpe fucsia.
Che tutti facevano la Cresima e io non l'ho fatta.

Una madre diversa, cattiva e rancorosa e ingestibile.
Un padre diverso, con problemi e segreti che non voglio e non posso raccontare qui.
Una casa diversa, impresentabile e senza riscaldamento, che adesso la stufa fa figo, ma negli anni ‘70 faceva miseria.

Sono sempre stata diversa.
Con opinioni sui generis, scelte sui generis: non mi sono mai sposata, non ho mai convissuto, non ho avuto figli.
E non mi dite che siamo in tante, che io non ne conosco nessuna.

E non mi piacciono Biagio Antonacci e Ligabue e i Modà, per dire.
E neanche le borse, ne’ la cioccolata.

Sono diversa.
E non perché voglio esserlo, ma perché lo sono, per vocazione, per istinto, perché non posso essere altro.
Perché parlo e rido con tutti ma mi sento, diversa.
E spesso, tutto questo è sfiancante.

Troppo visibile.
Troppo alta, troppo bionda, troppe gambe.
Troppe battute al vetriolo, troppa intelligenza emotiva.

Detestabile.
Adorabile.
Non so.